Una mattinata davvero emozionante per i nostri alunni, pluripremiati al Premio "NarrAzione" indetto dal liceo classico Adolfo Pansini in collaborazione con la libreria "Iocisto". L'alunna Gabriella Izzo si è distinta nella sezione narrativa ottenendo una menzione speciale. Le classi II D e II B si sono invece distinte nella sezione cortometraggio classificandosi rispettivamente al terzo e al primo posto. Orgogliosi pubblichiamo i due video premiati e il racconto meritevole di menzione speciale. Complimenti ai nostri alunni!!!
INCIPIT
“Dovrà passare molto
tempo prima che Max dimentichi l’estate in cui scoprì, quasi per caso, la
magia. Correva l’anno 1943 e i venti della Grande Guerra trascinavano il mondo
nell’abisso, senza rimedio. A metà giugno, il giorno in cui Max compiva tredici
anni, suo padre, orologiaio e inventore a tempo perso, riunì tutta la famiglia
nel salone per annunciare che quello sarebbe stato l’ultimo giorno che
avrebbero passato nella casa in cui vivevano ormai da dieci anni. La famiglia
si trasferiva sulla costa, lontano dalla città e dalla guerra, in una casa
sulla spiaggia di un piccolo paesino sulle sponde dell’Atlantico. La decisione
era definitiva: sarebbero dovuti partire il giorno dopo all’ alba. Nel
frattempo avrebbero dovuto impacchettare tutti i loro averi e prepararsi per un
lungo viaggio fino alla nuova magione. La famiglia accolse la notizia senza
sorprendersi. Quasi tutti si erano già accorti che l’idea di abbandonare la
città in cerca di un luogo più abitabile ronzava per la testa di Maximilian
Caver da parecchio tempo. Tutti tranne Max.
A lui la notizia fece lo stesso effetto di una locomotiva lanciata a
folle velocità in un negozio di porcellane cinesi. Rimase di stucco, con la
bocca aperta e lo sguardo assente. Durante la breve trance, fu fulminato dalla
tremenda certezza, che tutto il suo mondo, compresi i compagni di scuola, la
piccola banda di strada e il negozio di fumetti dell’ angolo stava per svanire
per sempre. In un solo colpo. Mentre gli
altri membri della famiglia scioglievano la riunione per mettersi a fare i
bagagli con aria rassegnata, Max se ne stava immobile a guardare il padre. Il
buon orologiaio si inginocchiò di fronte a suo figlio e gli posò le mani sulle
spalle. Lo sguardo di Max era più eloquente di un libro. <<Ora ti sembra
la fine del mondo, Max. Ma ti assicuro che il posto in cui andremo ti piacerà,
ti farai nuovi amici vedrai.>> <<E’ a causa della guerra?>>
domandò Max <<E’ per questo che dobbiamo andarcene?>> Maximilian
Caver abbracciò suo figlio e poi, senza smettere di sorridergli, trasse dalla
sacca della giacca un oggetto lucido che pendeva da una catena e lo fece
scivolare tra le mani del ragazzo. Un orologio da taschino. <<L’ho fatto
per te. Buon compleanno.>> Max aprì l’orologio, forgiato in argento. Ogni
ora era indicata da una luna che cresceva e calava al passaggio delle lancette,
formate dai raggi di un sole che sorridevano al centro del quadrante. Sul
coperchio, era incisa in bei caratteri, si poteva leggere la frase : La
macchina del tempo di Max”.
RACCONTO
Max guardò l’orologio perplesso per qualche secondo, insicuro se stesse immaginando tutto.
“È un orologio speciale – disse il padre – si azionerà solo quando lo desidererai davvero, ma attento alle conseguenze delle tue azioni, potrebbero ripercuotersi sul futuro”.
Detto questo si alzò e andò a preparare le valigie. Max si mise a letto e ripensò molto alle parole del padre. Non era convinto che quello che dicesse fosse vero: al padre piaceva sperimentare e creare cose nuove, ma quasi nessuna delle sue invenzioni era andata a buon fine. Nella maggior parte delle volte usciva dal suo laboratorio con oggetti inutilizzabili e da buttare nella spazzatura. Nonostante i tanti pensieri che gli passavano per la testa, Max si decise a dormire perché l’indomani avrebbe dovuto affrontare un lungo viaggio. La mattina seguente, poco prima dell’alba, Max fu svegliato dai suoi genitori già pronti. Fece colazione e si vestì di malavoglia, ancora stordito per il gran sonno. Una volta pronti si recarono alla stazione dei treni, dove presero il primo convoglio della giornata che portava a una cittadina chiamata Wheldreik, che aveva l’aria di un luogo sperduto che nessuno conosceva. Viaggiarono per un paio d’ore in mezzo a verdi pianure e rigogliosi campi. Il paesaggio era meraviglioso, ma nonostante questo Max si addormentò per tutto il viaggio e si svegliò quando erano già arrivati. Wheldreik era un paesino che affacciava sul mare, era circondato da un bosco di betulle ed era formato da piccole case con i tetti rossi e i muri bianchi; nel cortile di un piccolo edificio, che doveva essere la scuola, si vedeva un gruppo di bambini giocare. C’erano diverse stalle e piccoli negozi di falegnameria e tutto sommato sembrava una cittadina bella e confortevole. A Max però non piaceva per niente! Era ancora sconvolto dalla notizia e si rifiutava di credere che avrebbero vissuto lì. Era arrabbiato e triste, voleva a tutti i costi ritornare nella sua città e dai suoi amici.
Maximilian Carver, il padre di Max, aveva comprato una casetta vicino alla piazza della città. Era una casetta piccola, ma accogliente. Aveva una cucina con al centro un tavolo di legno intagliato, un piano cottura semplice, ma che sembrava nuovissimo e alcune credenze; aveva un salottino con un divano color nocciola, qualche poltrona e una piccola libreria, un bagno e tre camere da letto, una per i genitori di Max, una per le sue due sorelle e una per lui e i suoi due fratelli. La cameretta di Max era abbastanza piccola: c’erano tre letti stipati dentro a fatica, una piccola scrivania, un armadio e qualche mensola su cui posare i libri. La giornata passò sistemando le cose in casa. A sera era già tutto a posto, la casa era molto graziosa e accogliente. La mattina seguente Max dovette andare in piazza per fare dei servizi per la mamma. La piazza era piena di ragazzi che giocavano a calcio, si sarebbe volentieri fermato lì per unirsi a loro, ma doveva fare la spesa. Andò prima dal fruttivendolo, poi in panetteria e infine in macelleria, a qualche isolato di distanza. Durante il tragitto per il paesino, si accorse di come fosse diverso rispetto alla città in cui abitava prima. Era molto più piccolo, con strade strette, aveva un piccolo parco, affacciava sul mare ed era circondato da un bosco. La sua vecchia città era un po’ più grande con strade larghe e molti parchetti, inoltre non era circondata dalla vegetazione, era in una pianura e non affacciava sul mare. Pensò che era veramente un paesino ideale dove nascondersi per fuggire dalla guerra, immerso nella natura e nascosto dal bosco, solo una piccola ferrovia come via di comunicazione da cui partiva un solo treno. Pensò alla guerra, a come fosse ingiusta e a come lo avesse costretto a trasferirsi e a lasciare tutto ciò che amava. I suoi pensieri furono interrotti dall’urlo di vittoria dei ragazzi che giocavano in piazza. Andò di corsa a casa, posò la spesa e corse a giocare con loro. Si divertì: i ragazzi, tutto sommato, erano simpatici e amichevoli. Fece soprattutto amicizia con Mario e Ferdinando, due ragazzi della sua età che erano fratelli gemelli con uno spiccato senso dell’umorismo. Si divertì i primi giorni, ma presto le giornate cominciarono ad essere noiose. Si svolgevano sempre uguali e monotone salvo qualche giorno in cui faceva delle partite a calcio nella piazza con i suoi compagni. Max sentiva tantissimo la mancanza dei suoi amici e della sua vecchia scuola, della sua vecchia casa, dei luoghi dove giocava con i suoi migliori amici. Gli mancavano tutte le risate e i giochi nella piazza e anche (non se lo sarebbe mai aspettato) le lunghe ramanzine del suo maestro. Sì, gli mancava proprio tutto e l’unico momento in cui poteva alleggerirsi il cuore era di notte, alla luce della luna, con il suo diario. Una cosa però lo turbava e lo rendeva inquieto: l’orologio. Da un po’ di tempo cominciava a emettere rumori un po’ più forti del solito e qualche volta si illuminava per qualche secondo di una luce propria. Questo rendeva inquieto Max che si chiedeva come un orologio potesse farlo. Ricordò le parole del padre a cui però si era rifiutato di credere e continuò a non crederci fino a quella notte. Era una normalissima notte di agosto, era martedì e tutto era tranquillo e silenzioso, a parte il frinire dei grilli. Max, come al solito, scriveva nel suo diario le riflessioni sulla giornata. E all’improvviso successe! La stanza venne pervasa da una luce bianca. Max prese l’orologio e vide che era lui a emettere quella luce. L’orologio cominciò a fare rumori sempre più forti, fin quando la luce avvolse Max.
Max si ritrovò per qualche secondo spaesato. Si trovava in un edificio molto grande. Era grigio, cupo, aveva l’aria triste e non sembrava un posto sicuro in cui stare. Max non aveva la più pallida idea di dove si trovasse e in che anno fosse ed era spaventato. Più in là c’erano delle persone. Anche se Max non sapeva chi fossero, decise di avvicinarsi per chiedere informazioni. Più si avvicinava e più un senso di angoscia lo invadeva. Erano ragazzi e avevano probabilmente la sua età, ma erano così magri e smunti e un’ombra di terrore albergava nei loro occhi stanchi. Max, titubante, chiese loro dove si trovassero, che luogo era quello e che giorno fosse.
“Come, non lo sai?!” rispose uno di loro, tutti uguali nelle loro strane divise a righe. Max fece segno di no con la testa. “Oggi è il 28 luglio 1943 e qui non sappiamo precisamente dove siamo, sappiamo solo che siamo in un campo di concentramento.”
Max era sbalordito! Prima di tutto perché non si aspettava di aver viaggiato nel tempo soltanto per qualche settimana e poi per quello che aveva appena ascoltato da quei ragazzi: lui non aveva mai sentito parlare di un campo di concentramento.
Max allora chiese loro come fossero arrivati lì e perché fossero soli.
“Siamo arrivati qui qualche mese fa. – risposero – Ci sono venuti a prendere delle persone armate che ci hanno condotto in dei furgoni su cui viaggiavano tantissime altre persone come noi. I nostri genitori erano molto spaventati e così pure noi. Arrivati qui ci hanno divisi. I nostri genitori, a quanto ci è stato detto, sono stati portati in un altro campo di concentramento. Ci hanno dato queste divise, ci hanno rasati e portati qui. Ci fanno lavorare senza sosta e abbiamo tanta fame perché ci fanno mangiare poco o niente.”
Max rimase sconvolto da quelle parole. Non poteva credere che dei ragazzi della sua età, e anche meno, mentre lui giocava, fossero rinchiusi in quel posto terribile e costretti a lavorare. Gli chiese come mai fossero lì:
“Hanno detto che siamo qui perché siamo Ebrei e quindi siamo inferiori, meritiamo di morire.” Risposero.
Max si sentiva atterrito, non poteva credere che qualcuno potesse essere imprigionato solo perché Ebreo. Le domande gli si affollavano nella mente. Non riusciva a capire, a darsi una spiegazione. Chiese ancora perché non giocassero e perché fossero stati divisi dai loro genitori.
“Non giochiamo perché non ci è concesso, – dissero – dobbiamo lavorare altrimenti ci sparano. Alcuni nostri compagni sono stati portati via perché non avevano più forze per lavorare, non li abbiamo più rivisti. Non sappiamo neppure perché ci abbiano diviso dai nostri genitori.”
Max non poteva crederci! Non poteva credere che quei ragazzi fossero stati strappati ai loro genitori, costretti a lavorare, soltanto perché Ebrei!
D’improvviso l’orologio di Max riprese ad illuminarsi. Max salutò i ragazzi. Li vide allontanarsi per andare a lavorare, le spalle curve, debolissimi…
Il suo orologio si illuminò nuovamente di una luce bianca e un secondo dopo era di nuovo nella sua cameretta. Era passato esattamente un minuto da quando si era teletrasportato. La notte era buia e tranquilla e tutto era come lo aveva lasciato. Eppure qualcosa era cambiato. Era cambiato il modo di pensare di Max. prima era arrabbiato con il padre perché lo aveva costretto a trasferirsi, ora invece era molto grato per averlo fatto. Lo aveva fatto per proteggerlo dall’orribile catastrofe che stava succedendo intorno a loro, per fargli ancora dormire sonni tranquilli. Era anche molto preoccupato per quello che stava accadendo a quei ragazzi in quello stesso momento. Anche se lui li aveva incontrati solo un minuto prima tecnicamente erano passate alcune settimane. Aveva paura che fossero stati portati via o che fossero stati uccisi. Cercò di dormire, ma non ci riuscì, trascorse la notte a ripensare a quanto aveva visto e prese una decisione: lo avrebbe raccontato al padre. La mattina dopo, approfittando di un momento di assenza della mamma e dei fratelli, andò dal padre. Parlarono a lungo e Max raccontò tutto quello che aveva sentito e visto. Gli raccontò degli orrori a cui erano sottoposti quei ragazzi e il padre era d’accordo con lui sul fatto che dovessero fare qualcosa. La sera ci fu una lunga discussione a cui parteciparono anche tutti gli altri e alla fine si decise che avrebbero aiutato quelle persone. Nei mesi e negli anni che seguirono aiutarono centinaia di Ebrei a nascondersi dai nazisti. Il paese in cui Max abitava era un luogo sicuro. Ospitavano spesso intere famiglie ebree a cui il padre di Max procurava falsi passaporti per partire e fuggire. Aiutarono tante persone che riuscirono a fuggire e a ricostruirsi così una nuova vita. Ben presto anche gli altri abitanti di Wheldreik cominciarono ad aiutare gli Ebrei. Max non poteva che essere fiero e felice di aiutare le persone innocenti a scappare dalla guerra ed essere liberi e fu veramente grato al padre di aver costruito quell’orologio perché altrimenti non avrebbe mai potuto scoprire quella terribile realtà e aiutare così tutte quelle persone.
“È un orologio speciale – disse il padre – si azionerà solo quando lo desidererai davvero, ma attento alle conseguenze delle tue azioni, potrebbero ripercuotersi sul futuro”.
Detto questo si alzò e andò a preparare le valigie. Max si mise a letto e ripensò molto alle parole del padre. Non era convinto che quello che dicesse fosse vero: al padre piaceva sperimentare e creare cose nuove, ma quasi nessuna delle sue invenzioni era andata a buon fine. Nella maggior parte delle volte usciva dal suo laboratorio con oggetti inutilizzabili e da buttare nella spazzatura. Nonostante i tanti pensieri che gli passavano per la testa, Max si decise a dormire perché l’indomani avrebbe dovuto affrontare un lungo viaggio. La mattina seguente, poco prima dell’alba, Max fu svegliato dai suoi genitori già pronti. Fece colazione e si vestì di malavoglia, ancora stordito per il gran sonno. Una volta pronti si recarono alla stazione dei treni, dove presero il primo convoglio della giornata che portava a una cittadina chiamata Wheldreik, che aveva l’aria di un luogo sperduto che nessuno conosceva. Viaggiarono per un paio d’ore in mezzo a verdi pianure e rigogliosi campi. Il paesaggio era meraviglioso, ma nonostante questo Max si addormentò per tutto il viaggio e si svegliò quando erano già arrivati. Wheldreik era un paesino che affacciava sul mare, era circondato da un bosco di betulle ed era formato da piccole case con i tetti rossi e i muri bianchi; nel cortile di un piccolo edificio, che doveva essere la scuola, si vedeva un gruppo di bambini giocare. C’erano diverse stalle e piccoli negozi di falegnameria e tutto sommato sembrava una cittadina bella e confortevole. A Max però non piaceva per niente! Era ancora sconvolto dalla notizia e si rifiutava di credere che avrebbero vissuto lì. Era arrabbiato e triste, voleva a tutti i costi ritornare nella sua città e dai suoi amici.
Maximilian Carver, il padre di Max, aveva comprato una casetta vicino alla piazza della città. Era una casetta piccola, ma accogliente. Aveva una cucina con al centro un tavolo di legno intagliato, un piano cottura semplice, ma che sembrava nuovissimo e alcune credenze; aveva un salottino con un divano color nocciola, qualche poltrona e una piccola libreria, un bagno e tre camere da letto, una per i genitori di Max, una per le sue due sorelle e una per lui e i suoi due fratelli. La cameretta di Max era abbastanza piccola: c’erano tre letti stipati dentro a fatica, una piccola scrivania, un armadio e qualche mensola su cui posare i libri. La giornata passò sistemando le cose in casa. A sera era già tutto a posto, la casa era molto graziosa e accogliente. La mattina seguente Max dovette andare in piazza per fare dei servizi per la mamma. La piazza era piena di ragazzi che giocavano a calcio, si sarebbe volentieri fermato lì per unirsi a loro, ma doveva fare la spesa. Andò prima dal fruttivendolo, poi in panetteria e infine in macelleria, a qualche isolato di distanza. Durante il tragitto per il paesino, si accorse di come fosse diverso rispetto alla città in cui abitava prima. Era molto più piccolo, con strade strette, aveva un piccolo parco, affacciava sul mare ed era circondato da un bosco. La sua vecchia città era un po’ più grande con strade larghe e molti parchetti, inoltre non era circondata dalla vegetazione, era in una pianura e non affacciava sul mare. Pensò che era veramente un paesino ideale dove nascondersi per fuggire dalla guerra, immerso nella natura e nascosto dal bosco, solo una piccola ferrovia come via di comunicazione da cui partiva un solo treno. Pensò alla guerra, a come fosse ingiusta e a come lo avesse costretto a trasferirsi e a lasciare tutto ciò che amava. I suoi pensieri furono interrotti dall’urlo di vittoria dei ragazzi che giocavano in piazza. Andò di corsa a casa, posò la spesa e corse a giocare con loro. Si divertì: i ragazzi, tutto sommato, erano simpatici e amichevoli. Fece soprattutto amicizia con Mario e Ferdinando, due ragazzi della sua età che erano fratelli gemelli con uno spiccato senso dell’umorismo. Si divertì i primi giorni, ma presto le giornate cominciarono ad essere noiose. Si svolgevano sempre uguali e monotone salvo qualche giorno in cui faceva delle partite a calcio nella piazza con i suoi compagni. Max sentiva tantissimo la mancanza dei suoi amici e della sua vecchia scuola, della sua vecchia casa, dei luoghi dove giocava con i suoi migliori amici. Gli mancavano tutte le risate e i giochi nella piazza e anche (non se lo sarebbe mai aspettato) le lunghe ramanzine del suo maestro. Sì, gli mancava proprio tutto e l’unico momento in cui poteva alleggerirsi il cuore era di notte, alla luce della luna, con il suo diario. Una cosa però lo turbava e lo rendeva inquieto: l’orologio. Da un po’ di tempo cominciava a emettere rumori un po’ più forti del solito e qualche volta si illuminava per qualche secondo di una luce propria. Questo rendeva inquieto Max che si chiedeva come un orologio potesse farlo. Ricordò le parole del padre a cui però si era rifiutato di credere e continuò a non crederci fino a quella notte. Era una normalissima notte di agosto, era martedì e tutto era tranquillo e silenzioso, a parte il frinire dei grilli. Max, come al solito, scriveva nel suo diario le riflessioni sulla giornata. E all’improvviso successe! La stanza venne pervasa da una luce bianca. Max prese l’orologio e vide che era lui a emettere quella luce. L’orologio cominciò a fare rumori sempre più forti, fin quando la luce avvolse Max.
Max si ritrovò per qualche secondo spaesato. Si trovava in un edificio molto grande. Era grigio, cupo, aveva l’aria triste e non sembrava un posto sicuro in cui stare. Max non aveva la più pallida idea di dove si trovasse e in che anno fosse ed era spaventato. Più in là c’erano delle persone. Anche se Max non sapeva chi fossero, decise di avvicinarsi per chiedere informazioni. Più si avvicinava e più un senso di angoscia lo invadeva. Erano ragazzi e avevano probabilmente la sua età, ma erano così magri e smunti e un’ombra di terrore albergava nei loro occhi stanchi. Max, titubante, chiese loro dove si trovassero, che luogo era quello e che giorno fosse.
“Come, non lo sai?!” rispose uno di loro, tutti uguali nelle loro strane divise a righe. Max fece segno di no con la testa. “Oggi è il 28 luglio 1943 e qui non sappiamo precisamente dove siamo, sappiamo solo che siamo in un campo di concentramento.”
Max era sbalordito! Prima di tutto perché non si aspettava di aver viaggiato nel tempo soltanto per qualche settimana e poi per quello che aveva appena ascoltato da quei ragazzi: lui non aveva mai sentito parlare di un campo di concentramento.
Max allora chiese loro come fossero arrivati lì e perché fossero soli.
“Siamo arrivati qui qualche mese fa. – risposero – Ci sono venuti a prendere delle persone armate che ci hanno condotto in dei furgoni su cui viaggiavano tantissime altre persone come noi. I nostri genitori erano molto spaventati e così pure noi. Arrivati qui ci hanno divisi. I nostri genitori, a quanto ci è stato detto, sono stati portati in un altro campo di concentramento. Ci hanno dato queste divise, ci hanno rasati e portati qui. Ci fanno lavorare senza sosta e abbiamo tanta fame perché ci fanno mangiare poco o niente.”
Max rimase sconvolto da quelle parole. Non poteva credere che dei ragazzi della sua età, e anche meno, mentre lui giocava, fossero rinchiusi in quel posto terribile e costretti a lavorare. Gli chiese come mai fossero lì:
“Hanno detto che siamo qui perché siamo Ebrei e quindi siamo inferiori, meritiamo di morire.” Risposero.
Max si sentiva atterrito, non poteva credere che qualcuno potesse essere imprigionato solo perché Ebreo. Le domande gli si affollavano nella mente. Non riusciva a capire, a darsi una spiegazione. Chiese ancora perché non giocassero e perché fossero stati divisi dai loro genitori.
“Non giochiamo perché non ci è concesso, – dissero – dobbiamo lavorare altrimenti ci sparano. Alcuni nostri compagni sono stati portati via perché non avevano più forze per lavorare, non li abbiamo più rivisti. Non sappiamo neppure perché ci abbiano diviso dai nostri genitori.”
Max non poteva crederci! Non poteva credere che quei ragazzi fossero stati strappati ai loro genitori, costretti a lavorare, soltanto perché Ebrei!
D’improvviso l’orologio di Max riprese ad illuminarsi. Max salutò i ragazzi. Li vide allontanarsi per andare a lavorare, le spalle curve, debolissimi…
Il suo orologio si illuminò nuovamente di una luce bianca e un secondo dopo era di nuovo nella sua cameretta. Era passato esattamente un minuto da quando si era teletrasportato. La notte era buia e tranquilla e tutto era come lo aveva lasciato. Eppure qualcosa era cambiato. Era cambiato il modo di pensare di Max. prima era arrabbiato con il padre perché lo aveva costretto a trasferirsi, ora invece era molto grato per averlo fatto. Lo aveva fatto per proteggerlo dall’orribile catastrofe che stava succedendo intorno a loro, per fargli ancora dormire sonni tranquilli. Era anche molto preoccupato per quello che stava accadendo a quei ragazzi in quello stesso momento. Anche se lui li aveva incontrati solo un minuto prima tecnicamente erano passate alcune settimane. Aveva paura che fossero stati portati via o che fossero stati uccisi. Cercò di dormire, ma non ci riuscì, trascorse la notte a ripensare a quanto aveva visto e prese una decisione: lo avrebbe raccontato al padre. La mattina dopo, approfittando di un momento di assenza della mamma e dei fratelli, andò dal padre. Parlarono a lungo e Max raccontò tutto quello che aveva sentito e visto. Gli raccontò degli orrori a cui erano sottoposti quei ragazzi e il padre era d’accordo con lui sul fatto che dovessero fare qualcosa. La sera ci fu una lunga discussione a cui parteciparono anche tutti gli altri e alla fine si decise che avrebbero aiutato quelle persone. Nei mesi e negli anni che seguirono aiutarono centinaia di Ebrei a nascondersi dai nazisti. Il paese in cui Max abitava era un luogo sicuro. Ospitavano spesso intere famiglie ebree a cui il padre di Max procurava falsi passaporti per partire e fuggire. Aiutarono tante persone che riuscirono a fuggire e a ricostruirsi così una nuova vita. Ben presto anche gli altri abitanti di Wheldreik cominciarono ad aiutare gli Ebrei. Max non poteva che essere fiero e felice di aiutare le persone innocenti a scappare dalla guerra ed essere liberi e fu veramente grato al padre di aver costruito quell’orologio perché altrimenti non avrebbe mai potuto scoprire quella terribile realtà e aiutare così tutte quelle persone.
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